La vicenda dei libici, reclutati a metà del 1917 per essere avviati al lavoro negli stabilimenti italiani carenti di manodopera, ha recentemente destato un certo interesse nella storiografia che per molto tempo l’aveva pressochè ignorata.
A metà del 1917 la situazione in Tripolitania e Cirenaica vedeva gli italiani in forte difficoltà nel controllo della colonia. Il governatore di Tripoli D’Ameglio reputò che inviare in Italia manodopera libica potesse, oltre ad essere di sollievo per le popolazioni arabe in miserevoli condizioni di aiuto alle aziende italiane coinvolte nello sforzo bellico, un modo per togliere forze alle bande di guerriglieri che si erano sollevate contro gli italiani.
Giunsero in Italia, fra la fine di maggio e l’ottobre 1917, 5480 libici, musulmani e anche di religione ebraica. Le condizioni di ingaggio erano teoricamente allettanti: una paga di 3/3,50 lire al giorno, l’assicurazione contro gli infortuni, il viaggio gratuito e l’assistenza sanitaria attirarono soprattutto i contadini poveri della regione di Tripoli. Giunta in Italia, la manodopera libica fu impiegata prevalentemente nelle fabbriche del triangolo industriale come Ansaldo, Fiat, Breda e Pirelli.
Sul “Corriere della Sera”, si legge: “Gli operai libici portati in Italia sommano ormai a cinquemila, distribuiti in ogni parte ed adibiti alle più diverse mansioni. Vi sono libici a Sesto S. Giovanni, ve ne sono a Genova, presso gli stabilimenti Ansaldo, ve ne sono a Brescia, a Torino, in Sicilia, nelle miniere di lignite di Bagnasco. Naturalmente il loro impiego, per ora è ristretto a funzioni di manovalanza; ma la riuscita dei coloniali in ogni genere di lavoro è stata così soddisfacente, che tutti gli industriali che se ne sono serviti, fanno continue richieste al Governo per otteneren in più grande numero“.
L’adattamento non fu facile. L’entusiasmo del quotidiano milanese non raccontava che i libici lavoravano dieci ore al giorno, in condizioni piuttosto dure. Alloggiati in baracche prive di servizi igienici in cui era difficile resistere per gli odori nauseabondi che permanevano nell’ambiente. In un incerto italiano, un operaio libico giunto a Sampierdarena scrisse alla famiglia, : “la sera che siamo arrivate […]le anno messo a dormire Comele bestii sopra la palia il pidocchi che mangia il nostro Carne». Situazione che non mutò neppure nelle settimane successive all’arrivo.
Dalla “mercede” veniva sottratta una quota da inviare al governatore della Libia che aveva anticipato le spese di trasporto, un’altra quota era destinata “ai capi gruppo che accompagnavano gli indigeni” e, infine, una lira veniva inviata alla famiglia rimasta in Libia. Gli operai libici che erano arrivati in Italia chiamandola Patria, non ebbero dubbi, al termine della guerra e del loro contratto ritornarono convitantamente in Libia, manifestando a più riprese contro i ritardi che le autorità italiane frapponevano al loro rientro in Nord Africa. Vale la pena ricordare il gesto di solidarietà che gli operai libici di Sampierdarena, prima di ritornare in Africa, manifestarono verso i mutilati e le famiglie dei soldati italiani caduti in guerra destinando loro 1.700 lire delle loro mercedi.
Fonti:
La mano d’opera libica in Italia, in “Corriere della Sera”, 16 settembre 1917.
P. Di Girolamo, Dalla colonia alla fabbrica. La manodopera libica a Milano durante la prima guerra mondiale, in “Studi Piacentini”, n. 17. 1995.
F. Di Pasquale, Per la patria Italia. Esperienze di lavoro e di vita nelle lettere degli oeprai coloniali durante la prima guerra mondiale, in http://www.academia.edu/1319789/