La consegna ufficiale delle armi da parte delle formazioni partigiane si compie con cerimonie pubbliche nella prima decade del maggio 1945. Le Brigate partigiane saronnesi, inquadrate nella Divisione Bassa Brianza, consegnano le armi a Monza il giorno 12 maggio 1945. Il comando militare alleato aveva fissato la scadenza per la consegna di tutti i tipi di armi e munizioni per il giorno 13 maggio 1945. L’ordine prevede lo sgombero pure di tutte le caserme occupate dalle forze partigiane. La caserma dei carabinieri di Saronno viene evacuata dalle forze partigiane.

Numerose sono le testimonianze fotografiche che riproducono immagini riguardanti le cerimonie ufficiali in cui i partigiani consegnano le armi alla presenza dei comandi partigiani e dei comandi alleati. Tutti però sapevano, dai protagonisti della lotta di liberazione, agli esponenti politici, agli alleati, alle ricostituite forze dell’ordine, che soltanto una parte dell’enorme arsenale in possesso dei partigiani era stato consegnato. A Milano e nel resto della regione i partigiani cercano di riconvertire il loro ruolo trasformandosi in milizie di partito, non ufficiali. Charles Poletti, commissario regionale del governo militare alleato, consapevole di quanto va accadendo, rinnova l’invito alla consegna delle armi il giorno 30 maggio. Per spronare i riluttanti partigiani, il comando militare alleato in Lombardia s’inventa un premio di smobilitazione per i partigiani combattenti. Si tratta di riportare la situazione alla legalità e chiudere con quella “giustizia sommaria” che i partigiani avevano esercitato diffusamente. Saronno era una delle località in cui i partigiani avevano adottato soluzioni sommarie eliminando gli esponenti più violenti e compromessi del fascismo locale. Il caso del Tenente Farina, con l’esecuzione avvenuta di fronte a gran parte della popolazione, era uno di questi. Vi era stato anche chi non aveva voluto assistere, in disaccordo con la violenza  e mosso da umana pietà e non aveva voluto partecipare al corteo operaio che si mosse dalle fabbriche.

Il movimento partigiano, locale, prevalentemente operaio, legato al PCI, terminate le cerimonie ufficiali,  fu piuttosto riluttante a consegnare le armi di cui era in possesso. La crisi economica che colpisce i lavoratori saronnesi con la ristrutturazione delle grandi fabbriche (CEMSA e Isotta Fraschini) è motivo ulteriore per celare una parte delle armi utili per la rivoluzione sociale e politica auspicata da una parte del movimento operaio e alimentata dal’ambiguità dei comunisti italiani.  Le armi migliori sono occultate dai partigiani/operai proprio in quelle fabbriche che diventano il simbolo della resistenza al fascismo, ma pure della futura rivoluzione.

La situazione rimane sotto silenzio per alcuni anni, anche se nella vulgata popolare si alimenta il racconto di un arsenale di grandi proporzioni. Nella primavera del 1948, sono trascorsi circa tre anni dalle giornate dell’insurrezione, in prossimità delle elezioni politiche di aprile, il mutato clima sociale e il diffuso desiderio di normalizzazione da parte di chi sa porta  a liberarsi dei segreti che ormai rischiavano di non essere più giustificati.

Il 25 marzo del 1948 una colonna di  carabinieri provenienti dal comando provinciale di Varese agli ordini del Colonnello Savoca Corona raggiunge Saronno, circonda lo stabilimento CEMSA e vi penetra per condurre una accurata ispezione alla ricerca di armi. I carabinieri dopo il sopralluogo dei diversi reparti dello stabilimento, attraverso una botola si calano in un sotterraneo dove trovano dieci mitragliatrici in perfetta efficienza, un mortaio da 81 e due da 45, oltre a una ventina di fucili e moschetti. Il materiale sequestrato viene condotto a Varese. Per il modo in cui fu condotta l’ azione e la facilità con cui furono ritrovate le armi, è piuttosto evidente che i carabinieri avevano ricevuto una segnalazione e si erano mossi con la certezza di chi avrebbe trovato quanto cercava. I ritrovamenti non sono pertanto casuali, ma a destare meraviglia è la particolarità dell’operazione, condotta con uno spiegamento di forze considerevole e con tecniche più militari che da semplice ordine pubblico.

Le armi sequestrate rappresentavano soltanto una parte dell’arsenale occultato dagli esponenti della Resistenza che avevano le loro basi alla CEMSA  e alla Isotta Fraschini di Saronno. È opportuno ricordare, inoltre, che nei giorni dell’insurrezione la città, era diventata uno snodo viario attraversato da numerosi reparti fascisti in fuga che abbandonarono e/o consegnarono le armi ai distaccamenti partigiani della zona.  Tant’è che numerose armi della “Santa Barbara” partigiana ricomparvero durante le giornate di luglio, in occasione del ferimento del segretario del PCI Palmiro Togliatti. Nelle giornate di luglio, Saronno diventa epicentro delle lotte operaie della zona e durante manifestazioni animate, alcuni picchetti operai, disarmano esponenti delle forze dell’ordine. Ne seguono fermi, arresti e processi che si concludono nei mesi successivi.

Nuovamente, il 30 marzo del 1951 si ripropone un analogo episodio, simile a quello verificatosi tre anni prima. I gruppi dei carabinieri di Varese, Busto Arsizio e Saronno, comandati dal Tenente Colonnello Ansumma e dal Capitano Mongelli, circondano lo stabilimento Isotta Fraschini, determinati a chiudere con una vicenda ormai annosa. Per la circostanza, i carabinieri sono dotati di “minedetectors” (come nel linguaggio dell’epoca si definiscono gli strumenti per la ricerca delle mine, i cosiddetti metal detectors,). La ricerca porta al ritrovamento, murate in uno dei cunicoli sotterranei dello stabilimento, utilizzato come rifugio antiaereo durante il periodo bellico, ad un discreto arsenale di armi perfettamente lubrificate ed efficienti, localizzate nel reparto, noto come elettro-fonderia.

Posto mano ai picconi, abbattuti i muri che mascherano il deposito, vengono rinvenuti: 2 mortai, 3 mitragliatrici pesanti, 6 fucili mitragliatori, 5 mitra, 90 moschetti, 198 bombe a mano, 66 bombe da mortaio, 1 bomba anticarro, 104 spolette per bombe, 61 caricatori per mitragliatrici, 9.000 cartucce, 27 caricatori per armi automatiche, 2 nastri per mitragliatrici, 150 cariche per bombe, 5 supporti per mitragliatrici pesanti. Per l’occasione alcune persone, sospettate di essere responsabili dell’occultamento delle armi, sono fermate.  Nei giorni successivi le ricerche proseguono nel “labirinto di cunicoli del sotterraneo dell’Isotta Fraschini. I rilevatori magnetici portano alla individuazione di una bomba di grosse dimensioni ad altissimo potenziale che mette in allarme i carabinieri che fanno giungere da Milano tecnici di artiglieria. I quali dichiarano che la “forza di deflagrazione sarebbe sufficiente per far saltare mezza città di Saronno”.

Le ricerche riprendono nel vicino stabilimento CEMSA dove i sotterranei sono “passati al setaccio dei rilevatori magnetici”, pure i locali del Circolo Cooperativo della stabilimento sono oggetto d’indagine e anche in questa circostanza altri indiziati sono fermati. Tra armi e bomba si tratta di uno dei più ingenti ritrovamenti di armi avvenuto nel Nord Italia in quei mesi, tanto da meritare la prima pagina del “Corriere d’Informazione”.

A metà aprile, il Tenente Colonnello Ansumma della compagnia provinciale di Varese, concluse le indagini, arresta Emilio Mauri (nato a Milano nel 1915), che era stato direttore amministrativo dello stabilimento, Eros Martini, capo della sezione edilizia, Guido Tappa (nato nel 1896 e dimorante a Torino), capo reparto manutenzione, Osvaldo Zanasi (nato a Milano nel 1926), operaio modellista. Furono denunciati anche Nicodemo Gamiero, capo fonditore, Giuseppe Cavioli, capo elettricista, Gino Boccelli, fonditore, Goffredo Villeges (nato a Milano nel 1926), capo fornaciaio, tutti ricercati e deferiti all’autorità giudiziaria.

Il processo ai cinque arrestati si tenne quattro mesi dopo, all’inizio di agosto del 1951,  presso il Tribunale di Busto Arsizio, Goffredo Villeges  fu dichiarato latitante. Gli imputati sono accusati di avere “nascosto  armi a scopo sedizioso”. Quattro degli imputati (Mauri, Martini, Zanasi e Villeges) risultano iscritti al Partito Comunista, dal quale i primi due erano usciti nel 1948.

Il capitano Mongelli che aveva guidato le operazioni, durante il processo, dichiara che “il muro era perfettamente occultato e che una porta era stata murata probabilmente in epoca recente”. L’ing. Cattaneo, direttore tecnico dell’Isotta Fraschini, chiamato a deporre, dichiara che gli imputati erano stati licenziati negli anni precedenti durante i mesi difficoltà finanziaria dell’azienda. Come si può osservare gli imputati sono lavoratori della Isotta Fraschini che avevano ricoperto ruoli professionali nella struttura aziendale non più dipendenti dell’azienda saronnese che non risiedevano in città, verso i quali a distanza di anni si intentava un processo per vicende che presumibilmente ritenevano sepolte, come le armi che avevano murato e comunque eventi frutto di un particolare clima prodotto dalla guerra e dalle speranze accese dalla lotta di liberazione.  Il dibattimento termina con la richiesta del PM di un anno di reclusione e mille lire di multa  con l’aumento di sei mesi di reclusione per le aggravanti e la riduzione di un terzo per le circostanze attenuanti. Il collegio giudicante,  composto dal presidente Tibaldi e dai giudici Cortellese e Zeuli, non arriva in tempi rapidi alla sentenza, le cronache narrano di “una lunga riflessione in camera di consiglio”. La sentenza riduce la pena chiesta dal PM a 8 mesi di reclusione e mille lire di multa, col beneficio della condizionale e della non iscrizione sul casellario giudiziario. La sentenza risulta meno severa di quella voluta dal PM, in buona sostanza, i giudici non intendevano provocare strascichi e gli imputati furono tutti scarcerati.

Il rinvenimento di armi da parte delle forze dell’ordine si protrasse anche per gli anni successivi, almeno per tutto il decennio successivo. Talvolta furono scoperte occasionali di depositi abbandonati, interrati e rimasti celati dai giorni dell’insurrezione. Erano certamente rimanenze di armamentario raccolto con sistematicità, ma che dopo il 1948, esaurite le velleità rivoluzionarie post belliche, diventa ingombrante per gli stessi partigiani che lo avevano con cura raccolto. Non mancano casi di speculazione, di “compravendita” con scopi illeciti. Le armi recuperate erano talvolta degradate, ma il più delle volte in buono stato di conservazione, a significare che il culto delle armi era ancora vivo in alcuni ambienti politici e alimentato in settori comunisti legati al mondo partigiano.

Nel 1953 vi è uno degli ultimi rinvenimenti, in aperta campagna, dei carabinieri di Saronno di fu un fucile automatico Beretta 38, una rivoltella calibro 9 con caricatore e fondina, una pistola a tamburo calibro 9, sette caricatori per fucile automatico di 40 colpi, caricatori per moschetto modello 49, pallottole per moschetto modello 38,  320 cartucce da fucile automatico calibro 9, due bombe a mano tipo tedesco, pugnali con fodera e giberna tipo tedesco.

Risale al luglio del 2015 l’ultimo ritrovamento di armi nel Saronnese. In occasione degli scavi per la costruzione della nuova tangenziale esterna ad Est di Saronno, ai confini con il comune di Rovello, è stato trovato un deposito di armi, composto di mitragliatrici pesanti Breda. Le armi furono trasportate in aperta campagna e ivi sepolte, presumibilmente per sfuggire ai pressanti interventi dei Carabinieri che come abbiamo osservato, fra il 1945 e gli anni Cinquanta intervennero più volte alla ricerca di armi nelle due fabbriche saronnesi epicentro della Resistenza locale, dove sono rimaste sepolte per circa 65 anni. L’episodio, è proprio il caso di ricordarlo, più che alla talpa della storia è letteralmente il frutto dello scavo di una ruspa, ma testimonia ancora, come all’inizio degli anni Cinquanta frange del movimento partigiano, di ispirazione comunista, fossero dotate di capacità organizzativa e di tensione verso la palingenesi sociale che trovava nel culto delle armi, la sua identità.

Fonti

A chi servono? Armi nascoste a Saronno e in Liguria, in “Corriere d’Informazione”, 26/27 marzo 1948.  

Numerose armi murate all’Isotta di Saronno, in “Corriere d’Informazione”, 30-31 marzo 1951.

Una grossa bomba all’Isotta di Saronno. Sarebbe bastata a far saltare mezza città, in “Corriere d’Informazione”, 3-4 aprile 1951.

Quattro arresti a Saronno per le armi occultate alla Isotta, in “Corriere d’Informazione”, 16-17 aprile 1951.

Cinque condanne a Busto Arsizio per l’arsenale della Isotta Fraschini, in “Corriere d’Informazione”, 8-9 agosto 1951.

Altri otto “fermi” per le armi clandestine. Si estendono le indagini dell’Ufficio politico della Questura , in “Corriere d’Informazione”, 25-26 febbraio 1953.

  1. Gasparini, C. Razeto, 1945. Il giorno dopo la liberazione, Roma, Lit Edizioni SrL, 2015