Ricordo di Giovanni Turconi e Rosetta Ferrario

Ho sfogliato documenti d’archivio, ho ripercorso i sentieri a ritroso per ritrovare le vicende della mia famiglia.  Le testimonianze dei miei genitori sono state indispensabili per comprendere il vissuto, la quotidianità di un’epoca in cui la dimensione contadina-operaia  dominava la società della prima metà del XX secolo.

Ricordi sparsi

Non sono in grado di tracciare un percorso lineare della vita di mio padre. Alcuni episodi risalgono all’età infantile, frutto dei suoi racconti, sono riconducibili agli anni precedenti il 1939. Dalla fine della guerra, dal 1945 alla metà del 1954, l’anno in cui la sorte me lo rapì, sono testimonianze vissute. Ho trascorso con mio padre poco tempo della mia vita, molto di più con mia madre Rosetta. Per facilitare la lettura ho preferito dividere in due sezioni l’esposizione degli avvenimenti. La prima parte riguarda i racconti della vita di mio padre, i suoi insegnamenti, i ricordi rimasti impressi, mentre la seconda parte riguarda la vita di mamma Rosetta.

Papà Giovanni

Domenica 16 giugno 1901, nasce papà Giovanni, quarto figlio maschio, quando non si conosceva ancora il sesso dei nascituri. I genitori Carlo e Antonia Cattaneo dopo tre maschi avrebbero desiderato una femminuccia, un sentimento comprensibile, per la mamma una figlia femmina sarebbe stata un valido aiuto nei lavori domestici, ma anche per il padre Carlo la gestione dell’allevamento dei bachi da seta, tradizionalmente affidata alle bambine ne avrebbe tratto vantaggio. Le fanciulle, una volta appreso le regole e le pratiche che si tramandavano di generazione in generazione, diventavano autonome. A loro veniva affidato l’allevamento del baco da seta un fonte complementare di reddito per la famiglia contadina. La premessa per comprendere il clima in cui si viveva e che ben ricordo e conservo riposto nella memoria.

L’infanzia: i giochi

In gran parte erano simili ai miei: la lippa, le biglie, la cavallina, fionda, spade, pugnali e… giochi fatti in autonomia, ma uno in particolare più volte ripetuto era la scivolata (scarlighètta) sul ghiaccio del laghetto. Un ricordo indimenticabile per chi era bambino all’inizio del Novecento.

Alla fine via San Cristoforo, angolo con piazza Unità d’Italia,  c’era una vasca di accumulo di acque meteoriche detta Foppa. Per tutto il lungo inverno l’invaso rimaneva ghiacciato e durante l’inverno faceva la felicità dei bambini. All’età di sette anni questa emozione finì, era il 1908, la vasca venne ricoperta, al suo posto fu realizzato il Mercato Boario.

Alcuni episodi della sua vita

Terminata la terza elementare iniziò a frequentare le stalle. Ipotizzo che il padre lavorasse come stalliere. Giovanni lo aiutava a scaricare il fieno dal fienile della cascina portandolo alla stalla attraverso ul busèll (botola). Considerava tale attività un gioco, mentre più faticoso era caricare il letame sui carri. Il nonno Carlo iniziava il lavoro alle sei del mattino, mio padre lo raggiungeva dopo un’ora, la giornata di lavoro terminava in tarda serata.

Durante l’inverno nella stalla si andava con la lanterna, ma il più delle volte si lavorava al buio. Quando fu introdotta la luce elettrica, all’inizio era poco più di un lumino, un piattello riflettente dotato di una lampadina di 3 candele ed alimentata da 125V che illuminava una stalla di 30 m2.

L’attività più impegnativa era caricare e/o scaricare le bestie dalla biga (carro con pianale basso e sponde alte)  per recapitarle ai contadini, ai negozianti macellai, o anche condurle a “passo di vacca” al vicino Mercato Boario, dove venivano esposte per la compra/vendita, infine caricate su camion.

Il lato bello della stalla erano le serate invernali quando si riunivano uomini e donne per conversare, ognuno aveva la sua da dire, i bambini salivano in cascina con la scala a pioli e facevano scendere “la gamba ròssa dal busèl” con il tacito consenso degli uomini per spaventare le donne. Le serate trascorrevano  ascoltando barzellette di qualche buontempone che girava per le stalle.

Nel corso del 1913, due fratelli di papà Giovanni, Francesco (cl.1890) e Pietro (cl.1895) erano occupati in fabbrica dove lavoravano a 10-11 ore al giorno, mentre il più piccolo Giovanni e il fratello Giuseppe, detto Pepinn (cl.1899) erano responsabili dell’allevamento del baco da seta, dei conigli, delle galline e parzialmente della tenuta dell’orto.

Quando Giovanni raggiunse l’età di dodici anni l’allevamento dei bachi da seta e quello delle galline fu assegnato alla sorella (?) Maria, iniziò a lavorare presso la bottega del giocattolaio Croci specializzandosi come tornitore. Riceveva una misera paga lavorando dieci ore al giorno compreso il sabato. Niente ferie! Venivano concessi alcuni giorni non pagati per lavori di manutenzione in casa: verniciare la stufa, pulire i tubi dei fumi, imbiancare con calce il pollaio, fare scorta di fieno per l’alimentazione invernale dei conigli. Per ritornare in bottega appena terminato.

Nel 1921 dopo tre anni di una lunga e grave malattia contratta nelle trincee durante la  Grande Guerra cessò di vivere il fratello Pietro. Il suo nome è ricordato sul monumento dei caduti e nella cappella cimiteriale. Contemporaneamente papà Giovanni fu chiamato alle armi, dopo due anni di ferma riprese il suo lavoro. Ma a fine anni ’20, durante il periodo fascista, il settore dei giochi andò in crisi, fu così che si dedicò ad una nuova attività diventando stuccatore in opere murarie artistiche presso lo zio Luisìnn, impresario in Milano, dove già lavorava il fratello Angelo.

Nel 1925 si sposa il fratello Francesco ed esce dalla casa paterna. Alcuni anni dopo il fratello Angelo incorse in un grave infortunio sul lavoro, ricoverato in ospedale, venne a mancare dopo lunga malattia.

Nel 1939 quando sull’Europa era incombente una nuova guerra, a 38 anni papà  fu richiamato alle armi, fortunatamente per un breve periodo e forse la mia nascita, avvenuta  nel ‘41, gli fu propizia per evitare il fronte.

Negli anni che precedettero la guerra era entrato in declino il settore dello zio Luisìnn –  le grandi opere in stile artistico tipiche del Novecento furono abbandonate –   papà trovò un nuovo impiego presso l’oleificio Balestrini alla Bovisa, di cui era titolare un saronnese.

Anni duri, privi di divertimenti. Non ricordo che abbia mai visto un film. Lo rivedo alla domenica pomeriggio all’osteria del Gnètta (?) per una partita a carte con amici, accompagnata da un buon bicchiere di vino.

Negli anni  degli anni vissuti con lui seppe trasmettermi insegnamenti e pratiche sulla coltivazione dell’orto-giardino, pratica che con saggezza e lungimiranza  si era tramanda dai nostri avi. Esso rappresenta la meravigliosa singolarità dell’Eden, il biblico giardino per la perfetta simbiosi tra fiori, ortaggi e frutteto. Quest’orto-giardino è l’effetto del radicamento e della continuità della nostra famiglia nel luogo d’origine, facendo parte del centro storico dove ancor oggi abita mio fratello Franco, appassionato esperto, che dal seme del passato ha saputo renderlo ancora più rigoglioso e incantevole.

La tradizione dell’orto intercluso nel centro abitato è uno dei tratti specifici della mia famiglia. L’orto ha un suo disciplinare che non può essere disatteso:

• le fasi di lavorazione della terra: vangatura e concimazione con letame maturo, sovescio di erbe e leguminose; recupero delle acque di lavaggio da stoviglie e biancheria (al tempo i saponi erano naturali) ottime per l’irrigazione di terreni acidi.

• metodi di conservazione degli ortaggi per la stagione invernale: porre il sedano in ceste con sabbia fine e asciutta; sradicare cavoli dal campo e ripiantarli in terreno riparato dai venti freddi, uno accanto all’altro in filari rincalzando le radici con la terra; proteggere con la paglia i gambi dei cardi e degli ortaggi fibrosi; perimetrare le aiuole con cenere per arrestare l’accesso alle lumache, oppure predisporre trappole con birra (golosità delle lumache); torcere la chioma dell’aglio per arrestare la linfa al solo bulbo. Idem procedimento per le cipolle schiacciando la chioma a filo terra; conservare pomodori acerbi (solo se verdi chiari) di fine stagione sotto porticato con poca luce al fine di ottenere una lenta maturazione, mentre per i pomodori acerbi (verde intenso) tagliarli a pezzi, marinarli in aceto e conservarli sott’olio e, altro ancora. In quest’ultima operazione veniva coinvolta la moglie (regina della cucina) esperta in arte culinaria appresa alla Scuola Domestica dove  compilò un prezioso ricettario tipico dell’Alto Milanese e scritto con calligrafia ordinata ed elegante, datato 1930.

Nel 1944, nel bel mezzo degli anni di guerra, sulla soglia della casa ricordo papà con la nonna anziana vestita tutta di nero con gonna strisciante per terra. Purtroppo fu il primo e l’ultimo ricordo, poco dopo ella lasciò la vita terrena.

Nel 1946-50 durante la stagione produttiva dell’orto una volta al mese papà mi portava con sé dallo zio Luisìnn a Milano,omaggiandolo dell’abbondanza del nostro raccolto, cosa che si ripeté fino al 1950.

Nel 1946 mi condusse ad una visita delle zone bombardate di Milano che mi è rimasta nella memoria. Partimmo dal lato sinistro del Duomo dove si vedeva la Rinascente  rasa completamente al suolo per arrivare allo scalo Farini, alla zona doganale e poi alla Bovisa dove lavorava, pure semi distrutta. Per fortuna la fabbrica dove lavorava era rimasta illesa e continuò a produrre. La “busta paga” fu così assicurata.

Nel 1946-47 durante le due vacanze estive trascorse ad Olginate sul lago di Garlate con la mamma, papà ci venne a trovare in bicicletta. Aveva imparato da pochi anni a rimanere in sella, me lo ricordo traballante alle prime pedalate.

Nel 1948 per sanare una pendenza ereditaria con una cugina, papà mi portò con sé a Seregno, un viaggio indimenticabile con locomotiva a vapore e carrozze belvedere con balconcino in coda, un’emozione mi pareva di essere sul farwest express.

Mamma Rosetta

Il 26 maggio 1910, giorno del Corpus Domini, veniva alla luce Rosa, primogenita di Giovanna Ferrario e Onorato Borghi, detta poi da tutti Rosètta. Figlia di operaio delle Ferrovie Nord, nasce in una casa di Via Macello 2, dove i genitori affittuari del Sciòr Carletto, avevano trovato il loro nido in coabitazione col nonno Gaetano, detto Tagneou e lo zio Pietro suo fratello. Era una dimora colonica, con cucina a piano terra e stanza al piano superiore, ringhiera, latrina e cortile in comune, dove abitavano venti famiglie, e c’era l’osteria detta della Pianta con il gioco delle bocce. Nei suoi ricordi rivede la sciòra Rosa, la Rosètta, la Cecchina, moglie dell’oste, la Paolina, Ol Giovànin, Ol Feliceou e altri.

A Rosètta, all’età di otto anni, il 3 ottobre 1918,  venne a mancare il padre, colpito dalla spagnola, epidemia che contagiò molte persone, mentre in cucina lo stesso giorno la mamma Giovanna, detta Giùanina, dava alla luce la sorella Onorata (nome assunto dal padre), detta poi Norina. La mancanza del papà, costrinse la mamma Giùanina che doveva sostenere la famiglia ad andare a lavare i panni dai ricchi. Tornàva a cà, ánca d’invèrno, cȏl bamburin bagnaa, pòvera donna, che vìta grama la faseva, affidando alla figlia Rosètta nel tempo libero dopo la scuola, il gravoso incarico di madre putativa della sorella Norina. Rosetta ricorda che terminata la scuola elementare andò a lavorare dalle suore, dove le venne affidato l’incarico di togliere i fili dai pizzi, prodotti dalla tessitura Torlay. Una misera retribuzione senza speranza di un adeguato salario per porre che poteva far pensare ad un roseo futuro, ad una famiglia. Fu così che raggiunta l’età minima per un lavoro in fabbrica, ella trovò occupazione presso il lanificio di via Manzoni (oggi area dismessa della ex Lux) e qui rimase fino alla sua chiusura del 1925. Erano anni dove la piaga sociale del dopoguerra aveva causato disoccupazione e carovita, ora che le condizioni andavano normalizzandosi con la ripresa delle assunzioni nelle fabbriche, mamma Rosètta ebbe modo di trovare nuovo impiego nella ditta Lazzaroni. Tre anni dopo, sposatosi lo zio Pietro, ella per contribuire ancora di più allo stato economico famigliare decise di lavorare per più ore in fabbrica, fino a undici ore giornaliere.

Il 7 aprile 1936, la nonna Giovanna, da un anno malata, all’età di sessantasei anni cessò di vivere, tre mesi dopo anche il papà Gaetano di ottantuno anni spirò. Le due sorelle Rosètta e Norina, rimaste orfane, furono ospitate nella casa dello zio Emilio Ferrario detto Miloeu, in Strada per Ceriano (oggi via Bergamo), di fronte alla Cascina Paolina, dove Norina due anni dopo si sposò.

Nel 1939 mamma Rosètta, in occasione della festa di Solaro, organizzata dalle due massaie Carolina Perfetti – detta Cesara – e Celestina Dones abitanti nella Còrt del Muccètt (via San Cristoforo n°47), conobbe papà Giovanni.  Ella che abitava in Strada per Ceriano, presso la lo zio Miloeu e zia Giuseppina si fece trovare da sua sorella Norina, sposata con Adamo, detto Daminn e dimorante nella detta Còrt del Muccètt.  Il papà, messo al corrente dalla cognata Norina si aggregò al gruppo previa presentazione della mamma e trascorsero il pomeriggio nella bagarre della festa, cercando di conoscersi ed al ritorno egli l’accompagnò a casa in bicicletta. Da quel giorno si instaurò una forte simpatia e papà che lavorava come turnista presso l’oleificio Balestrini della Bovisa-Milano, nei pomeriggi liberi iniziò a recarsi davanti alla fabbrica Lazzaroni portandola a casa in canna sulla bicicletta.

Senza dirsi un sì di fidanzamento, il 30 dicembre 1939 si sposarono ed andarono ad abitare nella casetta della zia Giuseppina, in Stra Cerian, in un unico locale posto al primo piano, poco più di 15 metri quadri.

La mamma continuò il suo impiego presso la Lazzaroni. Ogni giorno percorreva a piedi circa due chilometri per recarsi in fabbrica, non aveva una bicicletta e mai ebbe modo di imparare. Abitare in quella casetta rendeva triste Papà, non sapeva darsi pace. Legato com’era da un forte vincolo con la casa natia di Via San Cristoforo sperava di ritornarci al più presto. Sogno che si realizzò grazie al contributo di £ 3000 del cognato Damin. Egli in poco tempo studiò come ristrutturarla, per creare le condizioni di convivenza con il fratello Giuseppe, detto Pepinn e la madre Antonia; dispose la cucina divisa dall’andito che volgeva alla stalla, con la pavimentazione in cotto (prima era in terra battuta e senza divisorio), la grande stanza posta al primo piano divisa in due di media dimensione, una per gli sposi e il futuro nascituro, l’altra per il fratello Giuseppe detto Pepinn e sua madre.

Il 15 maggio del 1941 nacqui io, papà accelerò i lavori di ristrutturazione per trasferirsi prima della scadenza del congedo di maternità. Nella nuova dimora, la nonna Antonia, regina della casa, mantenne la gestione economica secondo le sue abitudini, ciò creò dissidio con la nuora per il protrarsi di debiti insoluti. Infatti, il carbone veniva acquistato pagandolo dopo un anno in cambio di una nuova fornitura, le spese alimentari registrate sul libretto venivano saldate dopo solleciti del negoziante, abitudini queste forse ereditate dalla famiglia contadina benestante Cattaneo di Rovellasca da cui proveniva, mentre la nuora Rosètta memore degli insegnamenti del nonno paterno Gaetano (fattore al servizio della nobile famiglia Sioli), spesso ripeteva “prima ol ficc(?) dopo ol vitt”. Il caso fu risolto con l’affidamento della gestione finanziaria alla mamma. Dapprima, con comprensibile risentimento, ma poi la nonna fu orgogliosa della nuora acquisita. 

Inizialmente la mamma continuò il lavoro in fabbrica, ma la nonna Antonia non fu in grado di allevarmi, costretta a lasciare l’impiego la situazione economica si rese difficile, papà riusciva a stento a restituire 30 £ al mese al cognato per il debito contratto. A questo stato di povertà ci venne in aiuto il Dottor Vanelli, medico di famiglia e sindaco di Saronno dandoci un sostegno mutualistico, ma orgogliosamente papà e mamma fecero di tutto per evitarne l’uso. La mamma, prestò saltuarie ore come domestica in casa Lazzaroni e rubando ore di sonno si inventò un lavoro da ciabattino con scarti di stoffa presi dalla sorella sarta.

Il 25 febbraio 1948 nacque mio fratello Franco, una bocca in più da sfamare sulle spalle di papà, la nonna già morta dal 1944, e lo zio Pepinn disoccupato dalla fine della seconda guerra mondiale (per la chiusura della ditta Cemsa ex Maschinen Fabrik)per far fronte alle nuove esigenze famigliari si inventò i più svariati lavori di riparazione (fornelli a petrolio tipo Svea, bolle d’acqua calda in zinco, ghiacciaie per banchi d’osteria, stagnature pentole in rame, saldature a stagno, ecc.). Due anni dopo, quando Franco ne aveva appena due, zio Pepinn colpito da un infarto ci lasciò, con grande rimpianto di papà e mio dal quale nutrivo affetto paterno, essendo stato il mio secondo papà e angelo custode. Passò solo un anno dalla sua morte, che papà accusò disturbi allo stomaco. Trascinati con sofferenze fino al ricovero ospedaliero per rottura del perone, (causata da una caduta durante la riparazione del tetto della casa), qui gli fu diagnosticato una gravissima malattia allo stomaco. Operato, ma senza speranza di guarigione fu dichiarato invalido con una misera retribuzione e la mamma dovette ritornare alla fabbrica Lazzaroni dopo dieci anni di assenza, ed io assunsi il ruolo primario nella conduzione dell’orto. Papà, per questo stato che lo avviliva, sentendosi incapace di contribuire al sostentamento della famiglia, assunse l’incarico di custode delle biciclette presso il Municipio (attuale Villa Gianetti), ed io nelle vacanze estive lo aiutavo nella vigilanza. Un mio ricordo indelebile fu il giorno del suo onomastico, il 24 giugno, San Giovani Battista, doveva essere un’occasione di festa, ma non fu così. Dolorante a letto chiese alla mamma di aiutarlo a sedersi su una sedia e di chiamarmi perché gli portassi una piantina d’aglio. Poi disse: “Oggi suonano le campane di San Giovanni ed è il tempo di torcerlo”. Prontamente corsi da lui e mi dimostrò come operare”. Mio padre, amorevolmente assistito dalla moglie lungo il suo travagliato calvario, il 17 luglio-1954, dopo tante sofferenze si spense. L’anno successivo, io, terminato il terzo corso delle scuole di avviamento e raggiunto i quattordici anni iniziai il lavoro in fabbrica con la paga oraria di 30 £, ma più tardi passò a 60£ con 54 ore lavorative alla settimana, ciò permise a sanare le precarie condizioni della famiglia.     Furono anni difficili per la mamma senza il sostegno del marito, ma ella forte nella fede della Divina Provvidenza, ha sempre riversato nei figli premurose attenzioni senza mai pretendere nulla in cambio. Nel 1965, raggiunto i cinquantacinque anni andò in pensione, libera dagli impegni in fabbrica, ora poteva dedicarsi con maggior serenità ai mille lavori di casa. Purtroppo poco durò, una serpe si era annidata nel seno, ne seguì un intervento chirurgico con un buon periodo di guarigione, ma col passare del tempo il male penetrò lentamente nelle ossa. Iddio le diede la più grande soddisfazione di diventare nonna nel 1973, con la nascita di Roberta mia figlia e, nel 1975, con Andrea figlio di Franco. Purtroppo rattristata dall’impossibilità d‘aiuto alla crescita dei nipotini, l’anno successivo sicura di averci guidati con profonda fede nel nostro cammino della vita il 23 ottobre 1976, come una candela si spense.